Oggi è l’89esima ricorrenza della Giornata Mondiale del Risparmio.
Il motto della giornata è “il risparmio volàno della ripresa produttiva“. Come non condividerne lo spirito? E come non coglierne delle contraddizioni tutte made in Italy, soprattutto se ci ricordiamo che molto del risparmio italiano è gestito da investitori istituzionali come i fondi pensione, fondazioni bancarie e assicurazioni? Mi spiego meglio.
Come si legge dal sito del Governo dedicato alla Riforma della Previdenza Complementare (www.tfr.gov.it), “dall’inizio degli anni Novanta il sistema pensionistico italiano è stato oggetto di un articolato processo di riforma volto a contenere la spesa pensionistica in modo da garantirne la sostenibilità finanziaria”. L’evoluzione di questo sistema si è basata fondamentalmente sullo sviluppo di due pilastri: il primo “rappresentato dalla previdenza obbligatoria (erogata da I.N.P.S., I.N.P.D.A.P., Casse Previdenziali, etc.) che assicura la pensione di base; il secondo rappresentato dalla previdenza complementare che è finalizzata a erogare una pensione aggiuntiva a quella di base”.
L’introduzione del secondo pilastro ha portato alla nascita di nuovi fondi pensione e alla crescita di molti altri pre-esistenti, le cui risorse – stimabili oggi in decine di miliardi di euro – sono poi allocate ogni giorno sui mercati finanziari in funzione dei vari profili di rischio/rendimento a cui il lavoratore può fare riferimento nella sua scelta d’investimento.
Questi diversi profili corrispondono ad altrettante scelte di asset allocation, un termine inglese che definisce l’attività di suddivisione delle risorse tra vari strumenti finanziari (obbligazioni, azioni, valute, materie prime, etc.) e comparti geografici (Europa, Stati Uniti, Giappone, etc.). È un sistema che, in definitiva, raccoglie risorse dai lavoratori che aderiscono a tali strumenti e le rialloca sui mercati finanziari “internazionali”.
Si è volutamente evidenziato il termine “internazionali”, perché su questo punto si palesa una delle tante anomalie italiane. Scavando nei dettagli dei regolamenti dei fondi pensione – nella parte relativa ai comparti che più si concentrano sui listini azionari – si scopre infatti che le politiche d’investimento prevedono spesso l’allocazione dei risparmi dei lavoratori su mercati esteri, mantenendo alle volte solo una piccola quota sul nostro listino nazionale.
Il paradosso è evidente, soprattutto se confrontato con l’esperienza – assai più matura su questi temi – dei fondi pensione americani e inglesi: sostanzialmente, i risparmi dei lavoratori, attraverso i fondi pensione, sono veicolati al di fuori del nostro Paese per essere investiti in aziende quotate sulle borse di New York, Londra, Francoforte e Tokyo. Per sottostare alle legittime regole di diversificazione – volte soprattutto a limitare i rischi degli investimenti – queste risorse vengono trasferite all’estero, anche a caccia di migliori rendimenti, invece che rimanere in Italia a sostenere attivamente le nostre imprese.
Se occorre oggi discutere di politica economica per il rilancio del nostro tessuto industriale, è forse proprio da questa “anomalia” che è necessario cominciare.
In Italia, infatti, il mercato azionario è relativamente concentrato, soprattutto dal punto di vista settoriale, per la forte presenza di società finanziarie (banche e assicurazioni) e grandi gruppi industriali. Esiste tuttavia un mercato, il cosiddetto STAR (Segmento Titoli ad Alti Requisiti), dedicato da Borsa Italiana alle società con una capitalizzazione inferiore agli 800 milioni di euro e ricavi compresi tra i 100 milioni e 1 miliardo di euro, che rispondono a requisiti specifici in termini di liquidità, trasparenza e governo dell’impresa. Oggi, su questo mercato, a rappresentare l’universo delle piccole e medie imprese (PMI) italiane, sono quotate 77 società.
Per dovere di cronaca, è utile tenere a mente qualche numero. A proposito di PMI, Antonio Calabrò, all’interno del suo interessante libro “Orgoglio Industriale” (edito da Mondadori), menzionava che in Italia esiste “un universo ampio, composto da 4000 medie imprese (sino a 290 milioni di fatturato e da 50 a 499 dipendenti) e 600 medio-grandi. La spina dorsale dell’economia italiana. Sopra di loro, infatti, con fatturati superiori ai 3 miliardi di euro, ci sono meno di 50 aziende. E sotto, la miriade delle 510 mila piccole e piccolissime imprese manifatturiere, in una platea di 3 milioni 850 mila aziende classificate come industria (1 milione 115 mila) e servizi (2 milioni 731 mila)”.
Di nuovo: sul mercato STAR dedicato alle PMI sono quotate soltanto 77 imprese! L’anomalia è abnorme nelle sue dimensioni, anche solo considerando le prime 4600 imprese citate. Le risorse raccolte dai fondi pensione non hanno infatti la possibilità “pratica” di sostenere adeguatamente questa platea incredibile di aziende (perché non quotate su alcun mercato) e sono destinate a supportare invece imprese quotate all’estero o, attraverso la sottoscrizione di Titoli di Stato, a dare ossigeno al nostro deficit di bilancio.
È evidente come questa distorsione, legata non tanto alla cattiva volontà dei gestori di questi fondi pensione quanto alla effettiva difficoltà di veicolare i risparmi gestiti sul nostro tessuto industriale, rappresenta un’importante opportunità di riforma, attraverso coraggiose scelte di politica economica – ad esempio, sostenendo fiscalmente sia le imprese che decidono di quotarsi sia quegli investitori istituzionali che scommettono su di esse – che non avrebbero alcun impatto sulle nostre finanze, bensì consentirebbero a molte delle virtuose piccole e medie imprese italiane di ricevere capitali freschi a sostegno delle loro attività e liberandole quindi dal giogo di un sistema creditizio che oggi non è certamente loro amico.
Perché un libero mercato dei capitali, adeguatamente regolamentato per una maggior tutela degli investitori, stimola la crescita delle imprese: per riuscire ad attirare investimenti, e quindi sopravvivere, queste sono costrette a migliorarsi e diventare più efficienti, a rendere trasparenti i loro processi di governo e a sottostare alle regole della competizione.
È un circolo virtuoso che, innescato dalla necessità di remunerare al meglio il capitale investito dai fondi pensione, porterebbe a un “grande balzo in avanti” del nostro sistema-Paese, rendendolo più moderno ed efficace nel sostenere la competizione sempre più agguerrita che arriva dai mercati emergenti.
E assolvendoci dall’onere di dover sostenere con aiuti di Stato interi settori industriali non più competitivi, liberando quindi risorse per iniziative a più alto potenziale di crescita e abbassando al contempo la pressione fiscale.
Quindi, sì: il risparmio può diventare volàno per una più vigorosa ripresa produttiva. Ma ha bisogno di qualche aiuto in termini di deregulation…