Ma San Matteo non era esattore?

372px-The_Inspiration_of_Saint_Matthew_by_CaravaggioIn questi giorni si è sentito molto parlare di iniziative legate all’acquisto di portafogli di non-performing-loans (NPL). L’idea è molto semplice: le banche europee subiranno presto una nuova serie di test da parte della Banca Centrale Europea, e se non “passeranno gli esami” le istituzioni finanziarie meno meritevoli dovranno fare aumenti di capitale, chiedere aiuti allo Stato o invocare il Santo di turno – o meglio, direttamente l’apostolo (ed evangelista) Matteo, loro protettore. Perché con bilanci dissestati, quelle banche rappresenterebbero un problema per la stabilità del sistema monetario dell’area euro.

Quindi quello che succede è che alcune di queste banche cercano acquirenti specializzati nel trattamenti di crediti deteriorati, i quali sarebbero a quel punto svenduti a prezzi molto bassi (così da eliminare velocemente quelle poste non performanti dal bilancio della banca) e gestiti quindi dall’investitore “specializzato”. Al che mi sovviene una domanda banale, forse stupida: ma le banche non dovrebbero proprio essere quegli operatori specializzati nella gestione del credito? Faccio un passo indietro.

Tra le parole chiave che spesso vengono utilizzate sui mercati si parla di moral hazard, ovvero di quel meccanismo attraverso il quale gli operatori economici alterano il loro comportamento in seguito a certe regole che lo Stato crea, alterando l’equilibrio di variabili che – invece di diventare costi per l’intera collettività (come sta succedendo ormai da troppi anni) – dovrebbero più opportunamente rimanere associate a chi fa attività economiche “rischiose”. Il quale dovrebbe essere abbastanza diligente nel compierle (e se sbaglia, paga…).

La questione è infatti semplice: qui non si tratta di demonizzare le banche per comportamenti perfidi o ingannevoli nei confronti della clientela ignara dei depositanti; qui si parla di verificare la sussistenza di parametri di professionalità in capo a chi governa istituti bancari. Perché mai dovrebbero svendere crediti deteriorati se l’attività economica primaria di una banca è proprio quello di “gestire” tali crediti (ricevendone opportuna compensazione per i rischi che corre)? Se li svende perché non è capace di gestirli – e il fenomeno è diffuso a più istituti in più parti del mondo – allora si palesa un’incompetenza di sistema che va risolta in modo strutturale. Perché se le banche non sanno fare il loro mestiere, allora non si deve dare loro l’autorizzazione a farlo. E, come corollario, non si devono compensare…

Che diventino quindi solo degli intermediari “inconsapevoli”. Ovvero, consentano ai propri clienti di scegliere come allocare i propri depositi: dato che molti dei risparmiatori saranno avversi al rischio, le loro somme di denaro rimarranno in conto corrente non remunerato. E non verranno utilizzate per fare prestiti. Per quelli che invece sono più avvezzi al rischio, la banca offra l’opportunità di investire in veri specialisti che – in maniera atomizzata e non più sistemica – fanno il lavoro del prestatore di fondi.

Meno colossi che rischiano di mettere a repentaglio il sistema, più piccoli operatori che non fanno male a nessuno se falliscono. Con buona pace di San Matteo che di professione faceva l’esattore e che, con i problemi attuali del suo settore, poca voglia ha di stare appresso anche alla categoria dei banchieri…

The economic machine

Il ponte dei morti è alle porte, e il mese di ottobre si sta chiudendo. Le borse europee (misurate dallo STOXX 600) hanno raggiunto nuovi massimi: 

E nuovamente si sentono le voci di chi insiste che il mercato è drogato da una politica monetaria che altera la percezione dei fondamentali. “Bolle nel brodo” è il titolo che il buon Nouriel Roubini ha dato a un suo recente commento. Ovviamente piuttosto negativo. E c’è anche chi ricorda come alcune valutazioni del mercato americano – misurate secondo una dei ratio più apprezzati da Warren Buffet – siano piuttosto care:

Nei prossimi giorni si cercherà di fare il punto su questi aspetti…ma prima di allora è forse utile dare un’occhiata a cosa professa un “grande” del mondo degli investimenti, Ray Dalio. Questi ritiene che l’economia sia come una grande “macchina” che si comporta secondo modalità più o meno prevedibili. Il video allegato (molto interessante) presenta la sua view:

Ma altri, come George Soros, hanno una visione differente sull’essenza “indefinita” dei mercati finanziari: ovvero, come la conoscenza e i vari pregiudizi che caratterizzano il nostro operare impattino fondamentalmente tutte le transazioni finanziarie: nello specifico, la percezione del valore intrinseco di ogni attività, che a sua volta ne influenza il prezzo di mercato.

Forse, a contrario di quanto pensa Dalio, non c’è affatto un “meccanismo” semplice che governa l’economia e i mercati finanziari. Soprattutto se ci ricordiamo gli effetti che eventi considerati altamente improbabili – i cosiddetti cigni neri di Taleb – hanno sul normale scorrere degli eventi e sulle percezioni che gli operatori di mercato hanno del mondo.

Infine, Dalio non tiene in considerazione l’impatto che la politica fiscale e quella monetaria hanno sul meccanismo di formazione dei prezzi. Ed è forse questo l’aspetto più interessante di un sistema capitalistico che – in larga parte – professa il cosiddetto “libero mercato”, mentre permette allo Stato (più o meno direttamente) di determinare “dall’alto” il prezzo della moneta.

Che alla fine il gioco degli investimenti si riduca a una semplice scommessa su questo aspetto? Da pensarci durante il ponte…

Il risparmio volàno della ripresa produttiva

Oggi è l’89esima ricorrenza della Giornata Mondiale del Risparmio.

Il motto della giornata è “il risparmio volàno della ripresa produttiva“. Come non condividerne lo spirito? E come non coglierne delle contraddizioni tutte made in Italy, soprattutto se ci ricordiamo che molto del risparmio italiano è gestito da investitori istituzionali come i fondi pensione, fondazioni bancarie e assicurazioni? Mi spiego meglio.

Come si legge dal sito del Governo dedicato alla Riforma della Previdenza Complementare (www.tfr.gov.it), “dall’inizio degli anni Novanta il sistema pensionistico italiano è stato oggetto di un articolato processo di riforma volto a contenere la spesa pensionistica in modo da garantirne la sostenibilità finanziaria”. L’evoluzione di questo sistema si è basata fondamentalmente sullo sviluppo di due pilastri: il primo “rappresentato dalla previdenza obbligatoria (erogata da I.N.P.S., I.N.P.D.A.P., Casse Previdenziali, etc.) che assicura la pensione di base; il secondo rappresentato dalla previdenza complementare che è finalizzata a erogare una pensione aggiuntiva a quella di base”.

L’introduzione del secondo pilastro ha portato alla nascita di nuovi fondi pensione e alla crescita di molti altri pre-esistenti, le cui risorse – stimabili oggi in decine di miliardi di euro – sono poi allocate ogni giorno sui mercati finanziari in funzione dei vari profili di rischio/rendimento a cui il lavoratore può fare riferimento nella sua scelta d’investimento.

Questi diversi profili corrispondono ad altrettante scelte di asset allocation, un termine inglese che definisce l’attività di suddivisione delle risorse tra vari strumenti finanziari (obbligazioni, azioni, valute, materie prime, etc.) e comparti geografici (Europa, Stati Uniti, Giappone, etc.). È un sistema che, in definitiva, raccoglie risorse dai lavoratori che aderiscono a tali strumenti e le rialloca sui mercati finanziari “internazionali”.

Si è volutamente evidenziato il termine “internazionali”, perché su questo punto si palesa una delle tante anomalie italiane. Scavando nei dettagli dei regolamenti dei fondi pensione – nella parte relativa ai comparti che più si concentrano sui listini azionari – si scopre infatti che le politiche d’investimento prevedono spesso l’allocazione dei risparmi dei lavoratori su mercati esteri, mantenendo alle volte solo una piccola quota sul nostro listino nazionale.

Il paradosso è evidente, soprattutto se confrontato con l’esperienza – assai più matura su questi temi – dei fondi pensione americani e inglesi: sostanzialmente, i risparmi dei lavoratori, attraverso i fondi pensione, sono veicolati al di fuori del nostro Paese per essere investiti in aziende quotate sulle borse di New York, Londra, Francoforte e Tokyo. Per sottostare alle legittime regole di diversificazione – volte soprattutto a limitare i rischi degli investimenti – queste risorse vengono trasferite all’estero, anche a caccia di migliori rendimenti, invece che rimanere in Italia a sostenere attivamente le nostre imprese.

Se occorre oggi discutere di politica economica per il rilancio del nostro tessuto industriale, è forse proprio da questa “anomalia” che è necessario cominciare.

In Italia, infatti, il mercato azionario è relativamente concentrato, soprattutto dal punto di vista settoriale, per la forte presenza di società finanziarie (banche e assicurazioni) e grandi gruppi industriali. Esiste tuttavia un mercato, il cosiddetto STAR (Segmento Titoli ad Alti Requisiti), dedicato da Borsa Italiana alle società con una capitalizzazione inferiore agli 800 milioni di euro e ricavi compresi tra i 100 milioni e 1 miliardo di euro, che rispondono a requisiti specifici in termini di liquidità, trasparenza e governo dell’impresa. Oggi, su questo mercato, a rappresentare l’universo delle piccole e medie imprese (PMI) italiane, sono quotate 77 società.

Per dovere di cronaca, è utile tenere a mente qualche numero. A proposito di PMI, Antonio Calabrò, all’interno del suo interessante libro “Orgoglio Industriale” (edito da Mondadori), menzionava che in Italia esiste “un universo ampio, composto da 4000 medie imprese (sino a 290 milioni di fatturato e da 50 a 499 dipendenti) e 600 medio-grandi. La spina dorsale dell’economia italiana. Sopra di loro, infatti, con fatturati superiori ai 3 miliardi di euro, ci sono meno di 50 aziende. E sotto, la miriade delle 510 mila piccole e piccolissime imprese manifatturiere, in una platea di 3 milioni 850 mila aziende classificate come industria (1 milione 115 mila) e servizi (2 milioni 731 mila)”.

Di nuovo: sul mercato STAR dedicato alle PMI sono quotate soltanto 77 imprese! L’anomalia è abnorme nelle sue dimensioni, anche solo considerando le prime 4600 imprese citate. Le risorse raccolte dai fondi pensione non hanno infatti la possibilità “pratica” di sostenere adeguatamente questa platea incredibile di aziende (perché non quotate su alcun mercato) e sono destinate a supportare invece imprese quotate all’estero o, attraverso la sottoscrizione di Titoli di Stato, a dare ossigeno al nostro deficit di bilancio.

È evidente come questa distorsione, legata non tanto alla cattiva volontà dei gestori di questi fondi pensione quanto alla effettiva difficoltà di veicolare i risparmi gestiti sul nostro tessuto industriale, rappresenta un’importante opportunità di riforma, attraverso coraggiose scelte di politica economica – ad esempio, sostenendo fiscalmente sia le imprese che decidono di quotarsi sia quegli investitori istituzionali che scommettono su di esse – che non avrebbero alcun impatto sulle nostre finanze, bensì consentirebbero a molte delle virtuose piccole e medie imprese italiane di ricevere capitali freschi a sostegno delle loro attività e liberandole quindi dal giogo di un sistema creditizio che oggi non è certamente loro amico.

Perché un libero mercato dei capitali, adeguatamente regolamentato per una maggior tutela degli investitori, stimola la crescita delle imprese: per riuscire ad attirare investimenti, e quindi sopravvivere, queste sono costrette a migliorarsi e diventare più efficienti, a rendere trasparenti i loro processi di governo e a sottostare alle regole della competizione.

È un circolo virtuoso che, innescato dalla necessità di remunerare al meglio il capitale investito dai fondi pensione, porterebbe a un “grande balzo in avanti” del nostro sistema-Paese, rendendolo più moderno ed efficace nel sostenere la competizione sempre più agguerrita che arriva dai mercati emergenti.

E assolvendoci dall’onere di dover sostenere con aiuti di Stato interi settori industriali non più competitivi, liberando quindi risorse per iniziative a più alto potenziale di crescita e abbassando al contempo la pressione fiscale.

Quindi, sì: il risparmio può diventare volàno per una più vigorosa ripresa produttiva. Ma ha bisogno di qualche aiuto in termini di deregulation…

La complessità dell’innovazione

La complessità è una caratteristica dei mercati finanziari moderni. Ma anche, per esempio, del mercato pubblicitario online – che per certi versi ne ricalca i meccanismi di funzionamento. Contraddistingue anche la tecnologia, intesa come evoluzione progressiva della conoscenza umana su determinati fenomeni. E del potere che l’uomo ha su di essi.

Questa riflessione porta a un’altra intuizione: l’avanzamento tecnologico, di per sé, rappresenta progresso? Da una parte sembrerebbe di sì, perché si può constatare un impatto effettivo su società e singoli individui, i quali ne traggono un vantaggio per il miglioramento delle proprie condizioni di vita, o per soddisfare i propri bisogni. Ma se ci si sofferma un momento sulla “velocità” del cambiamento che le nuove tecnologie e le nuove scoperte imprimono al mondo, è facile rendersi conto che c’è qualcosa che rischia di non tenere il passo: ovvero, i framework istituzionali e i modelli di società stessa (e in Italia siamo particolarmente lenti in questo genere di cose).

La complessità dell’innovazione – per un policymaker – sta nel trasformare (o malleare) un processo accelerato e quasi dotato di autonomia in un fenomeno sostenibile che possa essere adeguatamente seguito da sistemi politici, strutture educative, realtà locali. Ad esempio, proprio su temi “local“, si parla tanto di mobilità del lavoro e del problema di attrarre talenti sul territorio in una fase storica dove stanno prevalendo – in Europa come negli Stati Uniti – gli scontenti nazional-popolari in ottica “protezionistica”. Da un lato si ha quindi una politica che cerca di proteggere paternalisticamente degli interessi particolari, i quali – tuttavia – rischiano di rallentare e ostacolare l’innovazione e il conseguente beneficio per la società. Dall’altra, si osserva la gara ad attirare talenti (cosa che noi non facciamo) con strumenti innovativi come ad esempio il modello di “startup VISA” o altri, più complessi, che puntano a una riduzione delle disuguaglianze territoriali attraverso il fenomeno dell’immigrazione.

Allora la complessità si riduce in questo caso a una semplice domanda: come migliorare la mobilità del lavoro, attrarre nuovo capitale umano e aiutare il tessuto sociale senza arrivare a distruggerlo? E ancora, come trasporre il progresso tecnologico accelerando il passo nel progresso istituzionale? Quali innovazioni per il contesto industriale, ovvero per le filiere produttive, i meccanismi di trasmissione delle risorse finanziarie e gli aiuti di Stato?

Banche con un “limite”?

Banche con un “limite”?

Draghi spera che i governi europei saranno pronti a riempire qualsiasi buco dovesse risultare dagli stress test che la BCE effettuerà sulle banche del continente nei prossimi mesi. Una domanda sorge però spontanea: i governi, dove troveranno i soldi? Ed emerge anche un’altra questione: come annullare il cosiddetto moral hazard che in questo momento affligge il sistema bancario (non solo europeo)?

Nel 2009, il governatore della Banca Centrale d’Inghilterra – Mervyn King – chiedeva a gran voce l’istituzione di un modello di utility banking che limitasse l’operato delle banche a quelle primigenie funzioni sociali che erano rappresentate dall’intermediazione finanziaria (connettere prenditori e prestatori di fondi) e dal sistema di facilitazione dei pagamenti. Così da evitare che le banche finissero poi per giocare con i soldi dei contribuenti, sfruttando il moral hazard rappresentato dal fondo che garantisce i depositanti (apparente tutela paternalistica che è presente in quasi tutti i moderni sistemi bancari). Il problema del sistema attuale, infatti, è che quando le banche si ritrovano gambe all’aria, il loro gigantismo e l’interconnettività che ne caratterizza il sistema richiedono un intervento di salvataggio che – quando gli azionisti giustamente si rifiutano di fare la loro parte – impiega le risorse dello Stato e, in ultima istanza, provoca un incremento dell’offerta di moneta, con i conseguenti rischi inflativi per l’economia. Tutto questo avviene non solo per colpa di alcune banche scellerate, ma anche perché i risparmiatori non hanno alcun incentivo a fare due diligence su dove mettono i propri soldi.

La questione diventa quindi con quale modalità implementare un utility banking system. Il vecchio Glass-Steagall act divideva l’attività commerciale e quella d’investimento delle banche d’allora. Ma, come abbiamo visto durante la crisi, l’importanza delle banche d’affari, quando sono al centro di transazioni finanziarie complesse e numerose, è tale che lo stesso sistema economico vacilla se un nodo della rete fallisce. La separazione delle attività non è quindi una soluzione sufficiente.

Non è invece scontata la soluzione proposta dal cosiddetto modello di Limited Purpose Banking: banche e assicurazioni diventano dei “condotti” di passaggio tra investitori specializzati (come i fondi d’investimento) ed emittenti di certificati di credito (come le imprese o lo Stato). Le banche non avrebbero la possibilità di prendere a prestito denaro per investirlo in queste securities, ma sarebbero dei veicoli “pass-through“. L’attività d’investimento – e quindi di risk-taking – sarebbe fatta da noi risparmiatori, ora obbligati a prendere coscienza di come i nostri risparmi devono essere impiegati (basta con il paternalismo che tutela/vizia il cittadino e il suo deposito in banca). E i fondi in cui investiremmo, sarebbero a pieno titolo piccole banche con molto più capitale: il 100%. “Banche” che nel prospetto avrebbero l’indicazione che il fondo mette le sue risorse a rischio investendo in determinati strumenti. E quindi, l’unico vero investimento sicuro sarebbe un fondo puramente monetario (ovvero, investito in extremis soltanto in moneta sonante), il quale fornirebbe anche i servizi di pagamento necessari ai cittadini.

In uno scenario di questo genere, una banca processerebbe una richiesta di prestito o un’emissione di azioni e – previa verifica del regulator e assegnazione di un rating standard – metterebbe all’asta sul mercato il titolo in questione, che verrebbe quindi prezzato (e giudicato) in modo fair da specialisti (i fondi d’investimento) in competizione per averlo in portafoglio. Sarebbe un meccanismo più efficiente (e utile) per la società, con un drastico abbassamento dei costi per lo Stato in caso di fallimento del sistema (e quindi, di conseguenza, per i cittadini).

Fantascienza? No

Massive underperformance?

Dopo l’accenno al secular bull market che ho fatto ieri, la debolezza odierna dei listini sembra richiamare a forza il famoso detto:

a long term investment is a short term investment that failed…

Ma cerchiamo di mettere in prospettiva i movimenti di mercato. Il grafico qui allegato, gentilmente condiviso da un collega, offre una prospettiva interessante.

Oct212013BubblevsBreakoutOvvero, che negli ultimi tredici anni (13!!!) l’indice azionario americano ha fatto poco o nulla. Questo per dire che, se gli scettici richiamano oggi il termine di “bolla” sui mercati azionari, forse dimenticano questa prospettiva storica. Oserei affermare che “it sounds like a period of massive underperformance“.

Inoltre, chi attribuisce il recupero dei mercati totalmente alla Federal Reserve dimentica un punto fondamentale: la banca centrale statunitense ha permesso di sbloccare un sistema del credito (e un cosiddetto shadow banking system) attraverso iniezioni di liquidità che sono anche andate a finire sui listini azionari. Tuttavia, dopo la batosta puramente macroeconomica che la crisi finanziaria ha dato alle imprese (calo delle vendite, necessità di ristrutturazioni, più ardua competizione), queste hanno poi nuovamente ripreso a macinare utili.

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Il grafico allegato (fermo ad agosto) mostra come gli earnings delle società americane siano cresciuti rispetto al semplice S&P500: dai minimi di marzo, gli utili sono balzati del 140%, mentre l’indice – quando ha sforato quota 1700 punti – era salito del 113% dalla fossa del 2009. Questo per dire che le azioni hanno sì seguito l’andamento dei profitti delle imprese, ma non hanno assolutamente fatto molto di più, smentendo quindi l’idea di una bolla speculativa.

Certo, se ora Greenspan va in giro a dire che “stocks are relatively low, qualcuno potrebbe pensare che è il momento di essere contrarian e di alleggerire il peso sull’azionario. Credo invece gli argomenti di ieri tengano ancora, sebbene sia opportuno iniziare a rivedere la situazione in area euro, ponderando la difficile partita che Draghi, da una parte, e Merkel, dall’altra, dovranno giocare. Le tematiche bancarie saranno all’ordine del giorno nelle prossime settimane, e le visioni tra i due leader differiscono marcatamente.

Pronti a riallacciare le cinture di sicurezza?

 

Previsioni del tempo

Previsioni del tempo

Dai minimi del 2009 il mercato ha corso davvero tanto. L’S&P 500 è ben oltre i 1700 punti e, come evidenziato dai grafici allegati, l’indice rappresentativo del mercato americano sembra davvero destinato a nuove glorie e a nuovi orizzonti.Secular bull marketCerto è che le condizioni per un nuovo secular bull market sembrano essere sul tavolo:

  • il tema del limite sull’indebitamento pubblico degli Stati Uniti è una no-issue, perché come già detto, le scaramucce rimarranno scaramucce, e il mercato sarà molto severo nel “disciplinare” la politica (e non viceversa)
  • l’addio di Bernanke sarà poco rimpianto, perché il nuovo governatore eserciterà la medesima put-option sul mercato, proteggendolo da se stesso e da Washington
  • le obbligazioni governative non rappresentano un rifugio sicuro in un contesto di crescita (seppur sotto potenziale), men che meno se si rimane in uno scenario di crisi del debito per gli stati sovrani, dove debito chiama altro debito (o, alternativamente, default)
  • le imprese sono state molto più efficienti degli stati nazionali e hanno ottimizzato i propri business, diventando più snelle e risparmiando cash (soldi che possono essere utilizzati per fare buyback o per aumentare i dividendi – e quindi entrano in competizione con i titoli a reddito fisso)
  • dal punto di vista macro non c’è nulla da disperare (come dimostrano i dati sul mercato del lavoro di oggi), il che è per noi un bene perché ci salva da politiche monetarie restrittive – e qualsiasi tapering futuro sarà quindi gradualissimo e prudentissimo
  • le valutazioni azionarie non sono così fuori dal mondo e, con una crescita degli utili per il 2014 prevista intorno al 10%, i multipli sono ragionevoli – anche se i profit margin sono da diverso tempo al picco (e possono rimanere così ancora per molto, alla faccia dei doomsayer)
  • infine, con i tassi d’interesse tanto bassi, la rotation fuori dai bond può continuare senza timore e, forse, anche con maggiore convizione.

Detto ciò, non dimentichiamoci la massima biblica:

Q: Why did God create stock analysts ?
A: In order to make weather forecasters look good.

Quello che stiamo facendo è infatti speculare su un possibile bull market secolare: averne certezza, come accade per i meteorologi quando parlano del bel tempo, vorrebbe dire che è ormai già finito. Godiamoci quindi questa illusione di bel tempo…

 

Le vergini suicide

Le vergini suicide

La settimana si sta chiudendo con un sospiro (di sollievo). Il weekend, se si escludono gli scioperi in Italia, trascorrerà tranquillo. Benché continui il paradosso di una nazione che, pur ponendosi un limite al debito che può emettere, si sollazza comunque in scaramucce per aggirare – di fatto – un divieto legale.

E ricordiamolo, fallire sulle proprie obbligazioni (specie se si è uno Stato sovrano) è un po’ come perdere la verginità: una nazione può impegnarsi a “preservarla”, ma una volta perduta – seppur esistano innovative tecnologie mediche – non è cosa che è così immediato recuperare. Ma tant’è…

In Europa ne sappiamo qualcosa, e abbiamo cercato di fare il possibile per intervenire da una parte (cinture di castità) e dall’altra (limitare frequentazioni pericolose) per mettere in sicurezza le vergini che abbiamo nel pollaio. Le chickens…anzi, forse dovremmo dire le “PIGS”…

Certo è che con le elezioni europee a maggio dell’anno prossimo, il rischio che nasca qualche nuova tentazione rimane molto alto: la “volpe” Marine Le Pen, in Francia, è in testa nei sondaggi per le intenzioni di voto del 2014. Con il 24% di preferenze, è avanti rispetto all’UMP (22%) e ai socialisti di Hollande (19%). E seppur oggi ci siano meno attenzioni sul tema dell’euro, vista anche la forza relativa della moneta comunitaria rispetto al dollaro americano, non è da escludere che tra inverno e primavera si ritorni a discutere sui mercati del futuro dell’Unione Monetaria. E, soprattutto, che le agende politiche si concentrino sempre di più su temi nazionalistici.

Le vergini suicide

Questo sarebbe pericoloso, perché se le politiche comunitarie venissero a mutare in direzione “protezionistica” l’impatto più forte verrebbe sentito da quelle relative alla mobilità del lavoro. Non dimentichiamoci, infatti, che uno dei problemi che sostanzialmente affliggono il nostro continente è proprio la bassa mobilità dei lavoratori europei. Nonostante che, almeno formalmente, siano da sempre attuate politiche che non la bloccano. Gli Stati Uniti, oltre oceano, sono relativamente più flessibili di noi proprio perché hanno un’incredibile mobilità geografica della propria forza lavoro. E, quindi, una migliore adattabilità della propria economia alle fluttuazioni dei cicli di breve e medio termine.

Credo sia quindi responsabilità dell’attuale establishment a Bruxelles convincere – con una visione chiara e convincente – della necessità di non farsi persuadere dalla cantilena di “volpi” più o meno in buona fede. E, d’altro canto, è fondamentale non ripetere gli errori commessi dalla famiglia Lisbon nel romanzo di Jeffrey Eugenides: troppe restrizioni (e politiche di austerità) avrebbero alla lunga effetti controproducenti e, magari, istigherebbero infine a rivoltose perdite di verginità…

Gli eroi della patrimoniale

Gli eroi della patrimoniale

Gli eroi di Alfieri sono esemplari di grandezza, di sacrificio assoluto, di dignità somma. La loro eroicità sta nella lotta a oltranza, nella battaglia contro la tirannia e la volontà impositrice del despota. Sono eroi che si discostano dai piccoli protagonisti della sua contemporaneità, e si rivoltano in uno sforzo titanico contro il volere del Fato.

Ricordano quasi gli eroi omerici, che difatti il nostro richiama in alcune sue tragedie: come l’Agamennone, nella quale Clitemnestra – moglie del re di Argo e conquistatore di Troia – viene convinta dall’amante Egisto a ucciderlo una volta rientrato in patria.

È una metafora che viene da lontano e richiama i tragici tradimenti che ancora oggi si consumano nelle capitali europee, nei consessi internazionali e sui mercati finanziari. È il difficile scontro tra l’eroismo della gente comune – quella che ancora soffre la crisi – e la drammatica avventatezza di chi – parafrasando Gobetti – decide nelle “cene di gala” sul futuro dell’economia.

Quanto pubblicato dal Fondo Monetario Internazionale nel suo ultimo Fiscal Monitor, cercando di rispondere alla domanda “can countries tax more, better, more fairly?“, ha scatenato un putiferio. A pagina 59, nel riquadro 6 qui riportato, ci si domanda se non sia desiderabile applicare una tassa patrimoniale sulla ricchezza privata dei cittadini: nella fattispecie, un 10% sulla ricchezza netta.

Fiscal Monitor

Il problema non è tanto nell’entità o nella scelta di questa forma di tassazione, quanto nell’aver cercato di lanciare irresponsabilmente un’idea, senza nemmeno provare a renderla più digeribile per chi questa proposta dovrebbe poi subirla. Ad esempio, sarebbe stato troppo provare a ipotizzare un meccanismo attraverso il quale restituire questa “patrimoniale” tramite proporzionali detrazioni d’imposta, come in una sorta di ammortamento?

Facendo l’esempio dell’Italia, con una ricchezza complessiva di oltre €8mila miliardi – dove il 10% delle famiglie più ricche detiene quasi il 45% della ricchezza netta, ovvero circa €1,4mila miliardi se si escludono le abitazioni dagli €8mila miliardi – un’aliquota del 12.5% (per esagerare rispetto al Fondo Monetario Internazionale) avrebbe generato oltre €180 miliardi.

Questo «aumento di capitale» per il Paese, promosso in modo tale da coinvolgere solo le famiglie più abbienti e risparmiare quelle più povere, avrebbe l’obiettivo di ridurre una tantum lo «stock» di debito pubblico. Ma, considerato l’approccio «patriottico» di tale tassa, sarebbe ragionevole considerare un regime di detrazione annuale pari al 10% dell’imposta pagata, avvicinandolo quindi a una sorta di «ammortamento» – sfavorendo allo stesso modo gli evasori e sostenendo chi ha costruito il proprio patrimonio senza evadere il fisco.

Ipotizzando un tasso medio del debito pubblico intorno al 4,0%, la riduzione dello «stock» di debito porterebbe a un risparmio per lo Stato di circa €7 miliardi all’anno. Inoltre, l’effetto di riduzione sullo spread – supponendo 100bps di restringimento – provocherebbe un’ulteriore riduzione della spesa per interessi, per un risparmio complessivo di oltre €30 miliardi all’anno.

Alfieri avrebbe forse rigettato con disgusto la proposta dei “mandarini” del Fondo Monetario Internazionale. E se oggi dovesse riscrivere la sua tragedia, quanto sarebbe ancora facile per Egisto (il Fondo Monetario Internazionale) convincere Clitemnestra (i nostri governi europei) a dare il colpo di grazia al suo sposo Agamennone (i popoli europei)?

La vittoria del fantasista

Sembra che stiano finalmente vincendo le grandi idee (Europa) rispetto alle piccole ossessioni (la stabilità dei prezzi). Oggi la Corte Costituzionale in Germania ha sostanzialmente assecondato la partita politica di Angela Merkel, ratificando quanto già il Parlamento tedesco aveva legiferato a proposito del fondo salva-stati. Ma si tratta anche di una partita vinta da un’Italia che, come nelle ultime competizioni calcistiche, ha saputo dominare la rigida Germania con una malleabilità e creatività da fantasista: poco a poco, Mario Draghi è riuscito ad accompagnare la Banca Centrale Europea verso un percorso di “redenzione” rispetto ai diktat che venivano dalla fronda della BuBa presente nel comitato esecutivo dell’istituto monetario europeo. E ha finalmente fatto (meglio, detto) quanto era necessario per difendere la moneta unica.

Sul fronte politico, è interessante rimarcare quanto ha affermato oggi Barroso. Ha parlato infatti di una “federazione di stati-nazione”: se la Costituzione americana parla di una “perfetta unione”, i trattati fondativi dell’Unione Europea fanno riferimento a “un’unione sempre più stretta”. E avvicinandosi velocemente il centenario ­dell’inizio della Prima Guerra Mondiale (28 luglio 1914), il Presidente della Commissione Europea fa bene a gettare il cuore oltre l’ostacolo, portando acqua al mulino di chi spera che la crisi porti consiglio e acceleri l’unione politica degli Stati membri. Ma se è vero che la BCE ha messo un floor relativamente alle speculazioni contro l’euro, è altrettanto chiaro che la palla torna ora nell’area della politica, dove i rischi di delusione per il mercato rimangono ancora elevati.

Il rally ­iniziato a giugno sconta infatti un aspetto molto importante: ovvero, che NON è impossibile prevedere l’azione dei politici, se si comprendono gli innumerevoli vincoli che questi ultimi devono tenere in considerazione, anche in ottica elettorale. Inoltre, nonostante lo scetticismo di molti, stiamo osservando un momentum macroeconomico in stabilizzazione dopo la serie di sorprese negative che hanno contraddistinto la prima parte dell’anno: e questa stabilizzazione può tramutarsi in un miglioramento ulteriore nei prossimi mesi. Certo rimangono altri rischi all’orizzonte, e la riunione della Federal Reserve di domani è uno dei catalyst principali, insieme alle elezioni presidenziali americani e agli effetti che queste ultime avranno sul tema del fiscal cliff negli Stati Uniti.

Ma, probabilmente, ciò che bisogna monitorare con più attenzione è quanto Spagna e Italia riusciranno a fare nei prossimi due trimestri: richiederanno l’attivazione dell’EFSF/ESM o ce la faranno con le proprie forze? Troveremo una leadership politica adeguata? Per il momento, i mercati non si sono ancora concentrati su queste domande: stanno ancora godendo del fantasista-Draghi…