Un’incipiente balcanizzazione?

Rispetto agli eventi positivi di settimana scorsa – con la BCE finalmente più baldanzosa nel condividere con il mercato una strategia di politica monetaria sullo stile dei “bazooka” americani – rimango perlpesso nel leggere invece sui quotidiani odierni che BNP Paribas inizierà a finanziare la propria sussidiaria italiana (BNL) facendole emettere direttamente obbligazioni sul mercato, rispetto a trasferire risorse liquide cross-border. È un segno lampante che la “balcanizzazione” del sistema bancario europeo è ancora in atto, con conseguenze fatali sulla capacità degli istituti finanziari nazionali di reperire (e quindi fornire) liquidità preziosa alle imprese.

Di questo processo ne avevamo lungamente parlato nella prima parte dell’anno: i flussi di capitali infra-Unione Monetaria Europea hanno ormai preso la direzione opposta rispetto a quanto era accaduto nei primi anni di vita della moneta unica. Le banche commerciali che si erano avventurate al di là dei propri confini – di volta in volta sfruttando cheap funding o trovando impieghi più redditizi – stanno ora tirando i remi in barca, con palese effetto strozzatura sulle risorse liquide che possono essere messe a disposizione del sistema produttivo.

Di fronte a questo fenomeno, “piace” la forzatura di Draghi rispetto al componente teutonico del Governing Council: Weidmann – quasi isolato all’interno della BCE – è invece l’acclamato alfiere di una narrativa politica nazionale che pare sia totalmente sfuggita di mano alla Merkel, tanto da far pensare che la stessa Corte Costituzionale tedesca possa sorprendere nella sua prossima decisione sul fondo “salva-stati”. Se infatti è imbarazzante leggere, tramite la BuBa, del dissenso di Weidmann rispetto all’ultima decisione della BCE, dall’altro preoccupa la mancata compresione in Germania di quale posta sia in gioco in questa delicatissima fase di aggiustamento del framework istituzionale europeo.

Non è una provocazione, ma già in altre occasioni avevamo parlato della mancanza di una forza “egemone” che potesse accendere un faro per l’intero continente e condurre al di fuori della crisi un’Unione ormai sfibrata socialmente, economicamente e politicamente. La Germania, che più di una volta nel secolo scorso aveva tentato di conquistare con la forza bruta tale ruolo egemonico, adesso sembra comportarsi come la Francia dei primi anni ’30, quando – similmente a oggi – si trattò lungamente (e senza successo) per il salvataggio del Creditanstalt, la banca austriaca che con il proprio fallimento portò tutto il sistema finanziario mondiale al collasso, innescando a quel punto la Grande Depressione.

Oggi, rispetto ad allora, abbiamo la fortuna di poter osservare una BCE più creativa e meno imbalsamata nel rigorismo dei mandarini di Francoforte. Basterà questo per limitare i danni dell’incipiente balcanizzazione del sistema bancario europeo?

Quale panacea?

Qui a Singapore giungono eco lontane dalle capitali d’Europa, ma tutti sono consapevoli che l’epicentro di futuri tremori è a Francoforte, la città che domani ascolterà per prima la voce di Mario Draghi, il Presidente di una BCE ormai sempre meno tedesca e, soprattutto, assai più creativa di quanto i padri fondatori dell’Unione Monetaria Europea potessero allora immaginare.

Quella che ci siamo abituati a conoscere è una BCE sempre meno “BuBa”, dove è possibile pensare a un membro tedesco del Governing Council messo in minoranza rispetto alle decisioni cruciali che l’istituto dovrà comunicare nella giornata di domani. Più volte avevamo ragionato sul “patto” che Köhl e Mitterand fecero a suo tempo, con il relativo prepensionamento del marco tedesco e l’istituzione di regole precise che avrebbero obbligato tutti i paesi membri dell’area euro ad adottare politiche fiscali ed economiche più “germaniche”. E in altrettante occasioni abbiamo rilevato come l’unica soluzione-tampone alla crisi attuale politicamente accettabile – o, per meglio dire, la meno dannosa – fosse una parziale monetizzazione del debito pubblico di alcuni paesi periferici, condizionale ovviamente all’adozione di un programma di “recupero” (come è avvenuto per Portogallo e Irlanda) e implementata con “briglie strette”, così da mantenere un controllo efficace sull’andamento dell’inflazione in un contesto di evidente “money-printing”.

Stampare moneta non assicura mai un futuro più prospero. E come scelta di politica monetaria racchiude al suo interno anche numerosi rischi. Ma, tra i tanti mali che ci affliggono, è il meno grave: ci permette, infatti, di guadagnare tempo e, soprattutto, di mantenere una parvenza di “solvibilità” utile a rallentare il fenomeno di deleveraging che da ormai 3-4 anni ha colpito le nostre economie sviluppate. Se il “money-printing” non è una panacea, nemmeno è possibile considerare un toccasana l’impianto di riforme sul lato dell’offerta che ormai è alla base delle politiche degli ultimi 12-18 mesi di storia economica europea. E se inflazione e default non sono soluzioni ottimali, allora non ci rimane che aumentare il ritmo di crescita, il quale, a sua volta, sarà determinato dall’incremento di produttività di alcuni fattori – in primis, il fattore “lavoro” (ma in questo ambito mancano idee brillanti…).

Agosto è stato un mese benigno per le asset class più rischiose: man mano che ci avviciniamo ad alcune date chiave (la review della Troika ad Atene, la decisione della Corte Costituzionale tedesca sul Fiscal Compacte e sull’ESM, le elezioni in Olanda e la fine della revisione bottom-up del settore bancario spagnolo), ritorna a essere importante la narrativa politica che il mercato ascolterà nelle capitali europee.

Ad esempio (e, non a caso, nel contesto di BuBa e BCE) riuscirà la Merkel ad assicurarsi un po’ di quieto vivere per il prossimo anno, prima delle elezioni in Germania? Le parole di Draghi formeranno domani parte della risposta.

Ritrovare il perché – parte prima

All’ombra serale delle Petronas Towers – che, grazie ai prodigi dell’illuminazione artificiale, quasi sembrano due astronavi pronte a decollare per gli spazi siderali – una volta di più mi sono reso conto di cosa sta mancando al Vecchio Continente e, più in generale, alla civiltà occidentale di questo inizio secolo.

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Le due torri costruite dalla compagnia petrolifera malese a cavallo tra gli anni ’90 e i primi scorci del ventunesimo secolo sono davvero due navicelle spaziali puntate verso il cielo, oltre i confini di questa Terra. Sono la metafora silenziosa ma imponente dell’idea di un popolo (e della sua leadership) che ha una profonda consapevolezza di dove vuole arrivare, che ha coscienza delle ragioni della sua corsa all’industrializzazione, che ha ben presente il “perché” di ogni sua iniziativa. Le Petronas Towers non sono altro che una rappresentazione fattuale di quelle idee, così come i miliardi che entrano nelle casse dello stato malese – poi reinvestiti in infrastrutture e in programmi per innalzare il benessere della popolazione – non sono che gli strumenti concreti verso un futuro più prospero e sicuro per tutta la società malese.

Nell’area euro (ma vale il medesimo ragionamento anche per gli Stati Uniti o il Giappone…forse persino per il colosso cinese) prevale invece un senso d’angosciosa inadeguatezza: siamo cercando di affrontare una crisi epocale utilizzando strumenti e soluzioni che, forse, ci porteranno in una nuova fase geopolitica dai contorni ancora incerti e, certamente, non ancora idealizzati dalla nostra leadership europea. Si ha come la sensazione che, attraverso determinate procedure e politiche economiche, stiamo cercando di raggiungere un qualcosa che manca tuttavia di qualsiasi appeal.

Mancano, in sostanza, la spinta emozionale, la tensione ideale, il “perché” stiamo vivendo tutto questo.

I paesi asiatici (e la Malesia ne è solo un esempio a campione) hanno negli ultimi 15 anni mosso le proprie economie partendo da una profonda e collettiva consapevolezza culturale: l’idea di raggiungere livelli di benessere pari a quelli osservati nei paesi occidentali e, quindi, di dare alla popolazione l’opportunità di realizzare le proprie aspirazioni. Empowering people, si potrebbe dire. Nei paesi occidentali, invece, abbiamo perso la rotta. Non sappiamo più “veramente” perché stiamo imponendo sacrifici enormi ai paesi dei PIIGS, perché il core deve (potenzialmente) sostenere le perdite relative a obbligazioni contratte dai paesi periferici e perché questa Europa deve avere questa forma e queste politiche, questi attori e questa moneta, queste tensioni e…quali ideali?

Sulla strada ci siamo persi i “perché” fondamentali che stanno alla base di questa Europa. Abbiamo confuso – e, infine, perso totalmente – ruoli e funzioni degli attori coinvolti. Cosa ne sarà della Grecia una volta che uscirà dalla depressione in cui è caduta? Che posto occuperà la Spagna all’interno dello spazio economico comune? Quali istanze porteranno avanti Irlanda e Portogallo, e quali opportunità avrà da offrire l’Italia a chi domanderà “dove vi sta portando tutta questa austerità”?

La chiave di volta dell’intera crisi è riposta in una semplice domanda: “perché”?

E non è troppo tardi per volgere lo sguardo indietro e ritrovare finalmente un senso a tutta questa entropia…

(segue…)

Per aspera sic itur ad astra

Parafrasando Pablo Neruda che scriveva “aunque este sea el ultimo dolor que ella me causa, y estos sean los ultimos versos que yo le escribo”, io oggi mi accomiato dalla crisi europea – che è stata causa e ragione di molte delle riflessioni che abbiamo condiviso in quasi un anno di annotazioni quotidiane. Ho iniziato a scrivere questi aggiornamenti all’apice della crisi dell’estate scorsa, e lentamente queste fotografie giornaliere hanno cambiato carattere, trovando infine una loro approssimativa coerenza. Ma in tutti questi mesi c’è stata anche un’altra evoluzione, più politica e finanziaria, che settimana scorsa ha finalmente portato a un cambio di trend nel modo in cui la leadership dell’Unione interpreta le ragioni della crisi. I semi sono stati gettati e il futuro, sebbene ancora molto incerto, inizia a delinearsi con maggiore chiarezza davanti ai nostri occhi.

Le varie asset class investibili non si sono scrollate di dosso il peso di un’incertezza che è tutta figlia di una crisi geopolitica e politica che io ritengo essere intergenerazionale. Sono convinto che gli smottamenti che hanno avuto inizio durante lo scoppio della bolla dei sub-prime ci sorprenderanno ancora, a ondate, come è accaduto anche negli ultimi due anni. Il troppo debito – e le ragioni legate alla sua formazione, pubblica e privata – è insostenibile e, soprattutto, incompatibile con i presupposti di crescita economica che ci si presentano oggi. E, in ultima istanza, la distruzione di ricchezza – richiesta dal deleveraging o imposta dall’inflazione – porterà a un reset curativo, e non più semplicemente palliativo. Salvo che, ottimisticamente parlando, possiamo assistere già nei prossimi anni a una rivoluzione tecnologica tale che riesca ad aumentare sensibilmente la produttività dei fattori. O che possiamo trovare (dove?) nuove fonti di domanda “reale”.

Oggi però permettetemi di trasmettervi anche un saluto personale, non legato a quanto accade sui mercati odierni (che, per la cronaca, decomprimono un po’ dopo gli strappi positivi delle ultime tre/quattro sessioni). Tra pochi giorni, infatti, lascerò l’Italia per un periodo di studio, trasferendomi a Singapore per alcuni mesi e poi tornando in Europa, vicino a Parigi, per concludere un percorso impegnativo ma – nelle mie attese, e non solo – estremamente stimolante. Continuerò però a scrivere: perché è un buon esercizio per riflettere e fare mente locale su quanto succede ogni giorno nel mondo: probabilmente saranno considerazioni meno quotidiane e più distanziate nel tempo, ma troverete sempre qui qualche indicazione.

Naturalmente spero di riuscire a salutare molti di voi nei prossimi giorni, per ringraziarvi dell’assiduità con cui avete letto e discusso questi “Daily Snapshot”. Sperando ovviamente che a luglio 2013 – passate le avversità che ancora ci tormentano – io possa ritrovarvi tutti intenti a cavalcare un nuovo straordinario bull market.

Perché, per aspera sic itur ad astra!

Un paracadute per l’euro

I mercati continuano ad avere cariche emotive piuttosto forti: l’apertura odierna è stata al rialzo e, as of writing, tutti i listini azionari sono puntati verso l’alto. L’Italia è la migliore piazza (+2.8%), seguita dalla Spagna (+2.7%), mentre in coda c’è la Svizzera (+0.6%) e tutto il comparto statunitense, percepito maggiormente difensivo. Sul fronte obbligazionario abbiamo assistito nuovamente a un restringimento dello spread sui Bonos di Madrid (-10bps), anche se altrettanto non si può dire per il BTP: pur rimanendo sotto il 6% e benché l’asta odierna sia stata ben recepita dal mercato in termini di rendimenti (sotto controllo), i principali operatori restano ancora scettici sul forte movimento causato da Draghi la settimana scorsa. C’è qualcuno che non si fida ancora delle serie intenzioni del “cavaliere bianco”.

Sul fronte dell’economia reale, infatti, a causa della limitata visibilità, le imprese stanno tuttora trattenendo qualsiasi investimento e limitano anche la domanda di fondi al settore finanziario: il paradosso ora è che le risorse sono disponibili ma non vengono richieste. E per la prima volta in quasi dieci anni, alcuni indicatori anticipatori per la coppia franco-tedesca sono scesi al di sotto della media del resto dell’area euro: questo significa che il rallentamento macro – che oserei chiamare recessione – sta andando a impattare fortemente anche due dei motori più importanti del continente. E questa debolezza non è solo legata a un calo nella fiducia rispetto alla sostenibilità della stessa moneta unica, ma riflette anche un altrettanto significativo calo della domanda finale. Nel 2009, il recupero nel ciclo economico era stato guidato soprattutto da un rimbalzo nel cosiddetto inventory cycle: la produzione nel 2008 era calata al di sotto dei relativi livelli di domanda, e l’intervento dei policymaker ha di fatto fornito un paracadute a chi, allora, mosso dal panico, si stava buttando da un aereo in fiamme a 4’500 metri di altezza. Ora il calo della produzione è stato accompagnato da un ritracciamento della domanda, la quale è assai più difficile da ravvivare. Il rischio che gli operatori vedono è quindi legato al fatto che la ripresa – salvo sorprese dell’ultimo minuto – se ci sarà (e i semi vanno gettati ora), sarà lenta…molto lenta…ci impiegherà un trimestre? Due? Dieci mesi?

Abbiamo già parlato gli scorsi giorni dell’intervento di Mario Draghi, ma credo sia importante rimarcare un aspetto significativo della sua linea di pensiero: la sostenibilità delle finanze pubbliche e il relativo rischio “controparte” sono in mano agli Stati e ai rispettivi governi in carica, mentre alla Banca Centrale Europea spetta il compito di gestire le tematiche di stabilità finanziaria legate alla moneta unica. Ad esempio, se vi fosse un rischio di “ridenominazione” percepito dal mercato in modo errato – a parere del Governing Council della BCE – la banca centrale avrebbe pieno mandato a intervenire per ristabilire un pricing più in linea con le sue aspettative. Chiamatela “Draghi’s put” o “paracadute per l’euro”, la politica monetaria potrebbe ritornare a essere nuovamente protagonista nel corso di questa settimana, ad esempio ponendo per i tassi nella periferia un target di rendimento attorno al quale si possa ricostruire la fiducia.

Ma dato che gli operatori rimangono ancora piuttosto scettici, Draghi ha bisogno di gettare il cuore oltre l’ostacolo, dimostrare un committment per l’euro che vada oltre i proclami, e rassicuri chi ancora non se la sente di impegnarsi in un nuovo ciclo d’investimenti e di acquisti. Questa è l’ultima settimana a disposizione: bisogna giocarsi il tutto per tutto per convincere i mercati, e giovedì sarà l’ultimo giorno per farlo.

Un euro “effervescente”

L’effetto Draghi sta ancora sostenendo i mercati: Eurostoxx +1.5%, FTSE MIB +2.4%, BTP in restringimento di 12bps, Bonos di 23bps e Bunds in rialzo (ora all’1.38%). L’effervescenza generata dal governatore della Banca Centrale Europea sta mantenendo vivo l’appetito per il rischio e ci permette di chiudere una settimana che era iniziata con molte incognite e diverse mancate risposte, concludendo oggi la seduta con tanta emozione tra i partecipanti al mercato. Ma dato che ormai abbiamo imparato ad apprezzare e a ponderare non solo i puri aspetti economici, ma anche quelli politico-sociologici di questa crisi, permettetemi che vale la pena questo venerdì spendere qualche ragionamento fuori dagli schemi, allontanandoci per un istante dalle nostre cronache finanziarie e cercando di intravedere quale evoluzione (o accelerazione) potrebbe subire il processo d’integrazione europea, se interpretato secondo un diverso paradigma.

Premetto che stiamo vivendo tempi che, per certi versi, sembrano davvero rivoluzionari: il sociologo Durkheim parlava di questi fenomeni come eventi della storia dove l’uomo ha l’impressione di essere dominato da forze non sue, che lo trascinano e lo trasportano verso un nuovo modo di concepire anche la sua stessa esistenza privata (ed è esattamente quello che stanno provando milioni di cittadini europei sotto la morsa delle riforme strutturali imposte dalla contingenza). D’altro canto, una rivoluzione rappresenta anche qualcosa di estremamente più intenso, dove l’uomo dimentica se stesso, si estrania rispetto ai propri interessi particolari e si dà completamente agli scopi comuni. Questo “stato nascente” di alberoniana memoria non ha ancora travolto i protagonisti reali di questa crisi: come dicevamo a suo tempo, manca quella leadership carismatica alla quale anche Weber attribuiva l’onere dell’innesco per la nascita di un “movimento” – senza scintilla, senza visione, la miccia non può accendersi per autocombustione.

Diventa quindi importante il commento odierno (per nulla banale) del duo Merkel-Holland – “ready to do anything to protect euro region” – nell’ottica di sublimazione del framework attuale dell’Unione Monetaria Europea. Per essere positivi sul mercato, quindi, monitorerei tutti quei segnali che palesano un “innamoramento” più profondo verso questo ambizioso progetto-euro: e se è vero che l’innamoramento è un fenomeno a due, il cui orizzonte è limitato alla coppia – per quanto possa “istituzionalizzarsi” poi in una famiglia – è altrettanto sicuro che quello che stiamo adesso osservando tra i policymaker è il passaggio a un altro registro: quello dello “straordinario”. Draghi, Merkel e Hollande stanno esprimendo con forza un nuovo messaggio di “solidarietà” e, al contempo, di rinnovamento della stessa Unione Europea. Verranno sicuramente altri commenti, ma ormai alea iacta est.

Ma non cadiamo in inganno: quello che di eccezionale sta accadendo ora non è assolutamente legato all’euro in sé né alle sue specifiche proprietà. È l’approccio relazionale tra gli attori che sta mutando, come avviene tra due persone che si scoprono innamorate: è l’esperienza (per il momento) di crisi emergente e (subito dopo) di straordinaria novità che rende profondamente diverso il rapporto tra le parti. È da questa novità che l’individuo (o la collettività) prende nuovo slancio per compiere un leap forward.È per questo motivo che vale la pena lasciarsi trasportare dai sentimenti di effervescenza provocati dalla dichiarazione di Mario Draghi, nella convinzione che da questa svolta si arriverà finalmente a conquistare un nuovo entusiasmante orizzonte.

Draghi’s 3 Words

Ci siamo. Draghi ha detto quelle fatidiche tre parole che, dirette alla moneta unica, possono rappresentare un estremo – ma deciso – grido d’amore per un figlio piuttosto sfortunato. Il governatore della Banca Centrale Europea ha stupito il mercato esprimendo la sua volontà di fare tutto quello che è necessario per mantenere l’area euro stabile: nella fattispecie, “within our mandate, the ECB is ready to do whatever it takes to preserve the euro. And believe me, it will be enough”. Per chi aveva dubbi, non rimane altro che attendere il prossimo meeting della BCE per vedere più “walk the talk”. Ma i presupposti sono stati già messi sul tavolo. L’uomo che ha il pallino in mano è lui in questo momento.

La reazione positiva dei mercati non si è fatta attendere: l’Eurostoxx 50 sale di oltre quattro punti, il FTSE MIB e l’IBEX sono oltre il 5% e gli spread stringono tra i 45 e i 50 basis point. La Spagna è tornata sotto il 7% e l’Italia può chiudere la giornata sotto il 6%. Ovviamente, anche l’euro si è mosso, riportandosi brevemente sopra quota 1.23 e registrando un guadagno intraday di oltre l’1% contro il dollaro americano. L’effetto sorpresa è servito ad alleggerire un po’ la pressione, a dimostrazione del fatto che in questa fase gli investitori sono molto (troppo) sensibili alle sollecitazioni dialettiche rispetto all’andamento dei fondamentali. In questo senso, però, le parole di Draghi sono interessanti anche nella loro sostanza.

Innanzitutto, è finalmente stato riconosciuto che l’andamento degli spread sta alterando il corretto funzionamento del meccanismo di trasmissione della politica monetaria. È un tema importante, perché se non compreso inficerebbe totalmente qualsiasi soluzione alla crisi. Inoltre, un’affermazione del genere non sarebbe stata possibile se all’interno del Governing Council non ci fosse un preventivo consenso sulle linee tematiche di fondo da condividere con il pubblico. Siamo quindi veramente vicini alla real action, che porterà allo short-covering di molte posizioni ribassiste.

Tuttavia, cosa potrebbe fare in pratica la BCE? Innanzitutto avrebbe la possibilità di concedere la licenza bancaria al fondo salva-stati. Una leva adeguata moltiplicherebbe la potenza di fuoco dell’ESM a quasi 5mila miliardi di euro, permettendo quindi di presentare al mercato quel famigerato bazooka che finora è mancato sul Vecchio Continente (e, se la comunicazione e la strutturazione sono sufficientemente efficaci, non credo sia nemmeno necessario che venga effettivamente utilizzato). È un modo per fare Quantitative Easing o “stampaggio” di moneta senza che sia la BCE stessa a farlo sul mercato. Un’idea elegante per implementare quelle tre famigerate parole: whatever it takes.

Come dicono alcuni analisti, però, la ratifica dell’ESM non è ancora stata portata a termine. Ciò detto, la BCE potrebbe comunque agire con una strutturazione – stile-bridge loan – per prendere tempo fintanto che il fondo salva-stati non è stato approvato definitivamente. Il Securities Market Programme, per esempio, è un ottimo candidato a questo ruolo di “ponte”. E per evitare che questa operazione (inflativa) diventi una sorta di free lunch per i politici europei, l’azione del fondo sarebbe condizionata a rigide road-map in tema di ulteriori riforme strutturali per tutti i paesi coinvolti (deflative). Aspetti che l’elettorato probabilmente ora non riuscirebbe a metabolizzare velocemente…ed ecco quindi ritornare il “meme” del golpe tecnocratico…ma tant’è…l’importante è attivare presto una put-option!

C’è una crepa in ogni cosa…

C’è una canzone di Leonard Cohen che contiene due versi a proposito dell’idea di perfezione: “there is a crack, a crack in everything. That’s how the light gets in”. Ovvero, c’è una crepa in ogni cosa, ed è da lì che entra la luce. In realtà la poesia Anthem di Cohen parla dell’accettazione in senso lato, della comprensione che l’imperfezione è un tratto caratteristico della condizione umana. E che forse non è necessario avere l’ansia di sistemare tutte le cose che non funzionano, a ogni costo. Ergo, non bisogna spaventarsi se si scoprono delle spaccature: perché è da lì che si insinuano nuove idee, nuove proposte. Nuove luminose progettualità.

Con questa visione – forse pragmaticamente romantica, o romanticamente pragmatica – ci accingiamo ad affrontare uno dei periodi più bui dell’epopea chiamata “Unione Europea”. Monti ha fatto bene a utilizzare una terminologia bellica per descrivere quello che ci attende ad agosto: non è persona da sprecare metafore o allusioni, e credo ponderi meglio dei suoi colleghi tedeschi ogni espressione che condivide in pubblico. E lo spread oltre i 530 punti base invoca battaglia. Ed è una battaglia diversa da quella che potrebbe invocare la Spagna, dove il differenziale con il Bund (a quota 627bps) racchiude al suo interno ben altri problemi strutturali. La nostra è un’economia diversificata, con una ricchezza diffusa e radicata, mentre quella iberica è stata per molti anni drogata da cheap lending e da speculazione immobiliare. È ingiusto paragonare le due realtà.

Ma la guerra dei due mondi – il core austero e noioso contro la periferia esuberante e indisciplinata – non deve portare alla riparazione grossolana delle crepe, al tentativo ingenuo di sistemare con un po’ di stucco le falle d’umido che sporcano le pareti del palazzo “d’Europa”. La guerra ha una funzione tremendamente egualitaria, perché come la pestilenza manzoniana non concede scampo, e conduce a un reset forzato, a una purga delle idee e delle volontà. E non stanno chiamando alle armi coloro che dicono che la Grecia dovrebbe essere immediatamente abbandonata a se stessa, conducendo inevitabilmente Atene a un’uscita obbligata dall’area euro: costoro sono semplicemente sciocchi, ignari del fatto che – specialmente oggi – un’eventualità del genere porterebbe a un avvitamento entropico di Spagna e di Italia nel giro di poche sedute.

No, coloro che chiamano alla guerra sono quei leader che non sono ancora riusciti a spiegare una verità sulla crisi, che non hanno avuto ancora il coraggio di comunicare una visione, che non sono stati in grado di fare quel salto d’immaginazione che potrebbe dare finalmente un senso ai tanti sacrifici che in (quasi) ogni dove i cittadini europei stanno sostenendo. Ed è vana consolazione sapere che una Banca Centrale Europea – seppur abitata da molti mandarini tedeschi – sia pronta a entrare in campo per compensare l’inettitudine dei nostri cari leader. Poco importa che, con il mark-to-market delle perdite degli ultimi due anni si sia distrutta scioccamente buona parte della ricchezza comunitaria. Il reset, di riffa o di raffa, politico o tecnocratico, palese o velato, sarà inevitabile.

Ciò che importa è anche rendersi conto che le crepe faranno entrare una nuova luce. Ed è bene che qualcuno – questa luce – sappia interpretarla consapevole delle imperfezioni che pur sempre rimarranno all’interno di questo Vecchio Continente. Altrimenti, la cronaca dei crolli delle borse globali non sarà altro che un esercizio di allitterazione numerica, di cui presto avremo grande noia: -5%, -1%, -3%, – 2%…

Come fermare uno schiacciasassi?

Il week-end è trascorso nell’ansia di quest’apertura d’inizio settimana. Allo “schiacciasassi” della crisi europea i regulator di Roma e Madrid hanno pensato bene di contrapporre oggi un divieto di vendite allo scoperto su azioni italiane e spagnole: non basta, non ci siamo, è tutto da rifare. As of writing, gli spread dei BTP e dei Bonos sono rispettivamente a 512 e 620 punti base sopra il Bund, che rimane ancorato (1.17%) vicino ai minimi storici. E l’euro (1.21) viene ovviamente penalizzato dall’estrema negatività che circonda le prospettive dell’Unione Monetaria Europea.

Per ritrovare un po’ di realismo non è sufficiente nemmeno rileggere i commenti dei tedeschi sul Der Spiegel – a proposito della possibilità che il Fondo Monetario Internazionale rifiuti di concedere ulteriori aiuti alla Grecia – alla luce del fatto che proprio l’IMF ha da poche settimane approvato il piano d’aiuti per Atene: infatti, arriva verso l’ora di pranzo la comunicazione a mezzo stampa che il Fondo “is supporting Greece in overcoming its economic difficulties. An IMF mission will start discussions with the country’s authorities on July 24 on how to bring Greece’s economic program, which is supported by IMF financial assistance, back on track”. Ovvero, bella smentita per Der Spiegel. Ma insufficiente a ridare fiato ai mercati.

Si aggiunga a questa speculazione di basso lignaggio l’idea che la Cina possa rallentare più del previsto: in effetti, il consensus di mercato è decisamente “sul chi vive” relativamente ai tassi di crescita di Pechino e, naturalmente, qualsiasi conferma di questo pessimismo può innescare paure e operazioni di messa in sicurezza che danneggiano ulteriormente la stabilità dei mercati finanziari. Oggi, ad esempio, un membro del comitato di politica monetaria della People’s Bank of China ha espresso il suo scetticismo rispetto alla possibilità che il Celeste Impero possa raggiungere la velocità di crociera prevista da molti analisti – ovvero, circa l’8% – quando le esportazioni stanno incontrovertibilmente mostrando dei problemi – e con il rischio che l’operato del governo non sia sufficientemente incisivo nell’alterare questo pericoloso trend. Ecco quindi Shanghai giù dell’1.2%, Taiwan sotto dell’1.9% e gli altri paesi emergenti in forma ancor peggiore (Russia: -2.9% e Brasile: -3.2%)

In tutto questo gloom & doom diventa quindi necessario ricercare ancora conforto nelle parole di Mario Draghi, che nella sua intervista su Le Monde pubblicata nel week-end ha evidenziato come il progetto dell’euro sia irreversibile e che non sono assolutamente da sottovalutare i committment politici da parte della leadership europea e dei suoi cittadini nei confronti delle moneta unica. Inoltre, aspetto ancora più interessante, la BCE sarebbe pronta a intervenire in modo aperto e senza alcun tabù per evitare una degenerazione della crisi (sebbene, dietro queste parole, permanga nelle capitali europee un problema di deficit politico ancora irrisolto).

Qualcuno deve quindi scommettere con forza sull’euro, qualcuno che abbia il bilancio e la capacità di farlo, imponendo quella condizionalità che è necessaria per proseguire il cammino di riforme strutturali che l’Europa ha bisogno per rimanere in piedi. Altrimenti, diventa molto facile immaginare le cupe alternative a questa “scommessa”…d’altronde, come fermare uno schiacciasassi?

Tre parole…per evitare di affogare

Ci domandavamo l’altro giorno come fosse possibile che i mercati si stessero comportando in modo così divergente – tassi in calo sul core e mercati azionari in rialzo. Ora scopriamo che, venuta a mancare l’adeguata riserva di “ossigeno”, l’equity sta ripercorrendo la traiettoria dell’Apollo 13, pronto per ammarare infine in quel mare di liquidità che è in procinto di essere iniettata sui mercati. E, preludio a tutto ciò, ritroviamo la coerenza in un movimento puramente risk-off: as of writing, Italia a -3.9%, BTP in allargamento brusco su tutta la curva (2 anni a +37bps intraday, 10 anni al 6.1% con spread vicino ai 500 punti base), Bonos spagnoli ai massimi storici per quanto riguarda il differenziale con il Bund e valuta comunitaria in strappo al ribasso, di nuovo sotto quota 1.22 rispetto al dollaro statunitense.

Dopo la celebre frase “Houston, we have a problem”, l’Apollo 13 rientrò sulla terra e, attraverso il famoso splashdown celebrato ai tempi, riuscì a portare in salvo gli astronauti della missione. E c’era qualcuno ad attenderli. Oggi, invece, chi può salvare i mercati “from drowning in the streams” dopo l’ammaraggio brusco di queste ore? Ritornano le preoccupazioni sulla tenuta fiscale in Spagna (dove le misure dell’ultimo pacchetto di austerità non è detto che riescano a mettere in ordine i conti di Madrid), c’è il timore che anche a Roma possano aumentare le difficoltà (visti i livelli attuali sul BTP e l’avvicinarsi di un periodo politicamente più incerto) e l’aritmetica di crescita continua a non soddisfare criteri base di sostenibilità: ovvero, siamo nuovamente entrati in zona-pericolo. Il ritorno di stress finanziari sui mercati può in realtà accelerare un processo che, dietro le quinte o più o meno palesemente, sta procedendo nelle direzione di un quantitative easing sincronizzato e collettivo da parte delle principali banche centrali dei paesi sviluppati. E, in primis, dalla Banca Centrale Europea (un altro LTRO? Un accordo per vincolare la liquidità data in prestito alle banche a impieghi reali nell’economia?).

Non è complicato: il mercato – e quindi gli operatori che lo compongono, ovvero imprese, lavoratori e sistema finanziario – ha bisogno di sentire che da qualche parte sta per essere preparato quel paracadute che può dare nuovamente serenità e tranquillità alla tradizionale pianificazione economica degli agenti privati. La Bank of England, la Swiss National Bank, la Bank of Japan, la Fed e la BCE hanno tutte modo di organizzarsi per offrire quell’antidoto al deleveraging forzoso che sta avvitando le nostre economie. Sono tre le parole chiave: inflazione, crescita e flussi. Rendimenti reali negativi possono infatti stabilizzare l’aritmetica fiscale pubblica, nonché incrementare il momentum di crescita economica (minori risparmi, minori costi finanziari e opportunity cost più interessanti nell’investire su altre asset class) e, infine, aiutare una riallocazione degli attivi degli investitori istituzionali verso classi d’investimento più produttive (ovvero, contrastare il deleveraging).

Sono tre aspetti che possono salvare la congiuntura e tenere insieme partner non così inclini ad aiutarsi a vicenda. In Germania stanno iniziando a comprendere di essere stati i principali beneficiari dell’Unione Europea, e di poter sostenere un tasso d’inflazione più elevato (si vedano Weidmann e Schäuble). In Italia potrebbe crescere l’esigenza in Monti di intervenire prima che si acutizzi ulteriormente la crisi: un accordo preventivo con la Troika potrebbe essere ad esempio un modo per “vincolare” de facto il Paese a un percorso obbligato di riforma strutturale (in cambio di risorse dalla BCE, id est, sotto forma di tetto allo spread).

Una sorta di “golpe tecnocratico” per evitare clamorosi e inopportuni impasse politici.

Non è qualcosa di premeditato, né da sottovalutare: mancano solo l’ispirazione giusta, o lo stress adeguato…