Draghi spera che i governi europei saranno pronti a riempire qualsiasi buco dovesse risultare dagli stress test che la BCE effettuerà sulle banche del continente nei prossimi mesi. Una domanda sorge però spontanea: i governi, dove troveranno i soldi? Ed emerge anche un’altra questione: come annullare il cosiddetto moral hazard che in questo momento affligge il sistema bancario (non solo europeo)?

Nel 2009, il governatore della Banca Centrale d’Inghilterra – Mervyn King – chiedeva a gran voce l’istituzione di un modello di utility banking che limitasse l’operato delle banche a quelle primigenie funzioni sociali che erano rappresentate dall’intermediazione finanziaria (connettere prenditori e prestatori di fondi) e dal sistema di facilitazione dei pagamenti. Così da evitare che le banche finissero poi per giocare con i soldi dei contribuenti, sfruttando il moral hazard rappresentato dal fondo che garantisce i depositanti (apparente tutela paternalistica che è presente in quasi tutti i moderni sistemi bancari). Il problema del sistema attuale, infatti, è che quando le banche si ritrovano gambe all’aria, il loro gigantismo e l’interconnettività che ne caratterizza il sistema richiedono un intervento di salvataggio che – quando gli azionisti giustamente si rifiutano di fare la loro parte – impiega le risorse dello Stato e, in ultima istanza, provoca un incremento dell’offerta di moneta, con i conseguenti rischi inflativi per l’economia. Tutto questo avviene non solo per colpa di alcune banche scellerate, ma anche perché i risparmiatori non hanno alcun incentivo a fare due diligence su dove mettono i propri soldi.

La questione diventa quindi con quale modalità implementare un utility banking system. Il vecchio Glass-Steagall act divideva l’attività commerciale e quella d’investimento delle banche d’allora. Ma, come abbiamo visto durante la crisi, l’importanza delle banche d’affari, quando sono al centro di transazioni finanziarie complesse e numerose, è tale che lo stesso sistema economico vacilla se un nodo della rete fallisce. La separazione delle attività non è quindi una soluzione sufficiente.

Non è invece scontata la soluzione proposta dal cosiddetto modello di Limited Purpose Banking: banche e assicurazioni diventano dei “condotti” di passaggio tra investitori specializzati (come i fondi d’investimento) ed emittenti di certificati di credito (come le imprese o lo Stato). Le banche non avrebbero la possibilità di prendere a prestito denaro per investirlo in queste securities, ma sarebbero dei veicoli “pass-through“. L’attività d’investimento – e quindi di risk-taking – sarebbe fatta da noi risparmiatori, ora obbligati a prendere coscienza di come i nostri risparmi devono essere impiegati (basta con il paternalismo che tutela/vizia il cittadino e il suo deposito in banca). E i fondi in cui investiremmo, sarebbero a pieno titolo piccole banche con molto più capitale: il 100%. “Banche” che nel prospetto avrebbero l’indicazione che il fondo mette le sue risorse a rischio investendo in determinati strumenti. E quindi, l’unico vero investimento sicuro sarebbe un fondo puramente monetario (ovvero, investito in extremis soltanto in moneta sonante), il quale fornirebbe anche i servizi di pagamento necessari ai cittadini.

In uno scenario di questo genere, una banca processerebbe una richiesta di prestito o un’emissione di azioni e – previa verifica del regulator e assegnazione di un rating standard – metterebbe all’asta sul mercato il titolo in questione, che verrebbe quindi prezzato (e giudicato) in modo fair da specialisti (i fondi d’investimento) in competizione per averlo in portafoglio. Sarebbe un meccanismo più efficiente (e utile) per la società, con un drastico abbassamento dei costi per lo Stato in caso di fallimento del sistema (e quindi, di conseguenza, per i cittadini).

Fantascienza? No

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